“Lungo lento. Maratona e pratica del limite” è il libro di Paolo Maccagno, antropologo e podista, che racconta ciò che ogni runner conosce senza saperlo, tutto quello che è scritto nelle fibre muscolari, nei tendini, nel cuore, nel cervello.
Il suo non è un semplice libro sulla corsa, ma un testo che parla all’anima di chi corre, partendo dalle suo origini. L’uomo si è evoluto per correre e non per camminare – si legge tra le righe del libro – con una moltitudine di tratti corporei, sviluppatesi nel corso di milioni di anni, essenziali per la corsa e non per la marcia (il tendine d’Achille, quelli dell’arco plantare o del tratto ileo-tibiale. Ma anche la lunghezza delle gambe rispetto agli arti superiori, l’alta percentuale di fibre rosse dalla grande efficienza aerobica, le dimensioni del piede…).
Milioni di anni fa, infatti, i nostri antenati correvano per inseguire e sfinire le prede su una terra di nessuno. Questa terra di nessuno, in cui la città non esiste più, per i runner inizia intorno al 35° chilometro. E’ il famigerato “muro” che deve affrontare ogni maratoneta, olimpionico o dilettante che sia. Ma cosa è realmente questo muro? Secondo Maccagno è un’esperienza trasformativa, un cambiamento di postura corpo-mente che può permettere di andare oltre. Soltanto una “pratica del limite”.
Ad orientare il maratoneta non è il traguardo, non è la meta: è il movimento ritmico, ostinato e costante, “quello del passo lungo una linea”, “un corpo che corre all’interno di un flusso perpetuo e ridondante: andare senza andare”.
Alla domanda chi ve lo fa fare, la risposta che Maccagno offre è la seguente: “Essere maratoneta è una sorta di trasparenza che si applica alla vita di tutti i giorni. E’ una fuga dal mondo nel mondo”.